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C’era una volta in America
di Maurizio Anelli.
George Floyd aveva 46 anni ed era negro. Nell’America a stelle e strisce il nero è una sfumatura che fa ancora la differenza. Il sogno americano contempla una strada che può essere solo bianca, il tempo passa e quel muro è sempre, o ancora, troppo alto. La trama del film è la stessa di troppe altre volte e cambia solo la modalità della condanna a morte, non c’è un colpo di pistola o la sedia elettrica, non c’è un linciaggio ma qualcosa che sembra perfino più perverso e sadico: è un corpo in divisa che preme, con tutto il suo peso, sul collo di George Floyd. George Floyd fa in tempo a dire “non respiro più…”, ma la bestia in divisa non si muove, ha una mano nella tasca e il suo ginocchio preme, schiaccia…uccide. C’è un’altra bestia vicino a lui… che strano, ha la stessa divisa e lo stesso sguardo cinico e indifferente. Non traspare nessuna emozione, solo una fredda e disumana lucidità: uno uccide, l’altro osserva e non muove un solo muscolo. La gente urla, protesta, ma non succede nulla e George Floyd lascia la sua vita sull’asfalto sotto una montagna disumana, feroce e compiaciuta. Quella ferocia compiaciuta ha la faccia dello Stato e indossa una divisa che abbiamo imparato a conoscere nel corso degli anni non solo in America. È una delle tante maschere che lo Stato indossa, a seconda del momento, e che mostra sempre i denti nei confronti degli ultimi anelli della catena. È la maschera innaturale, ma spaventosamente vera, del potere che concepisce sé stesso come qualcosa al di sopra di ogni parte e che non accetta di essere giudicato e messo in discussione. Certo, è sempre accaduto e continuerà ad accadere. La violenza esibita diventa disprezzo per la vita umana e, se questa vita ha il colore del nero, diventa qualcosa che in America assomiglia ad un trofeo da mettere in vetrina. La macchina umana è qualcosa che a volte ci illudiamo di aver capito ma non è così e, ogni volta, ci sorprendiamo a sorprenderci di quale delirio di onnipotenza essa è capace. È un delirio che troppe volte è garantito da una divisa che rappresenta lo Stato e le Istituzioni e tutto questo diventa autorità, potere. E il potere non tollera chi non si allinea in fila per tre, in ogni angolo del mondo. È successo in America, e in America succede da sempre, ma succede anche nel nostro Paese, succede in Turchia, in Palestina, in America Latina: l’autorità del potere usa da sempre i suoi uomini in divisa, li tutela e li protegge, li difende.
L’Italia non ha nulla da imparare da nessuno su questo terreno: dalla Questura di Milano nel 1969 il segnale era partito forte e chiaro: per nascondere quella notte, per infangare la vittima e per depistare le indagini, lo Stato ha superato ogni limite e ogni immaginazione. Sono passati più di cinquant’anni da quella sera e l’alba deve ancora arrivare. Sono seguiti quelli che in troppi ricordano solo come gli anni di piombo, dimenticando intrecci e legami, connivenze, ignorando le trame e i legami fra il “tintinnar di sciabole” e gli ambienti fascisti. Nel luglio dl 2001 a Genova è stata scritta una pagina che niente potrà cancellare: alle belve in divisa è stato permesso ogni scempio e il seguito della macelleria è stata la copertura, la difesa a oltranza e, in troppi casi, la promozione degli aguzzini. Da Ferrara a Roma, da Federico Aldrovandi a Stefano Cucchi: una macchia di vergogna e di sangue sulle divise della Polizia di Stato dei Carabinieri, coperture, silenzi e depistaggi. Le vittime diventano colpevoli sempre, gli assassini fanno carriera. Ci sono voluti dieci anni per arrivare a far crollare il castello di fango e menzogne, e solo la dignità e il coraggio di una madre e di una sorella hanno aperto una breccia su quel muro. Solo a quel punto lo Stato, con le spalle al muro e solo per questo motivo, ha dovuto ammettere almeno una parte della propria vergogna e di quelle macchie di sangue.
La Turchia di Erdogan è solo l’ultimo anello di una catena lunghissima e ricordare tutti i nomi è un soffio di solidarietà e di rabbia, ma non restituisce nulla. La Palestina muore e il mondo guarda distratto e infastidito.
Nell’immagine di Minneapolis è racchiuso tutto il delirio di un messaggio che si abbatte come un uragano sulla coscienza di ciascuno di noi, Minneapolis come Genova o come Ferrara, come Gaza e come Istanbul.
È l’immagine di una macchina, l’autorità, che si arroga il diritto di eliminare ogni granello di polvere che può disturbare il funzionamento dell’ingranaggio. Allora il granello di polvere prima deve essere schiacciato e poi rimosso dal selciato, ma solo dopo che il messaggio è stato lanciato in faccia a tutti. George Floyd nonriusciva più a respirare, a Gaza non si respira più, e non si respira più in Turchia, in Kurdistan e in Egitto, in Brasile e in ogni angolo del mondo dove il peso dell’autorità schiaccia e deforma ogni pensiero di dignità. Il peso di quell’autorità umilia ogni concetto di razza, di cultura, e il colore della pelle è ancora un’aggravante. Non c’è nessun senso in tutto questo, o forse un senso c’è: è racchiuso nella negazione delle emozioni e dei sentimenti, nel rifiuto di riconoscersi come persone che esistono e che fanno parte della stessa comunità; è contenuto in un modello di società assolutamente insensato che non ammette nessuna diversità e dove queste vengono messe ai margini, imprigionate nelle periferie della vita e, quando ancora non basta, vengono rimosse come si fa con le scorie che possono contaminare l’intero modello.
In questi giorni l’America brucia, nelle strade delle sue città la rivolta è scoppiata ed è una rivolta violenta, carica di rabbia. Non potrebbe essere altrimenti. New York e Dallas, Los Angeles e Detroit, Louisville, la terra di Muhammad Ali. L’America ha già conosciuto queste rivolte e, ogni volta, le ha represse con la forza delle tante divise di cui dispone: dalla Guardia Nazionale all’esercito, passando per una polizia sempre più militarizzata e sempre più violenta. È così che il potere rimette a posto le cose.
Il Presidente Trump getta benzina sul fuoco e afferma che “…alla Casa Bianca i cani feroci accoglieranno i manifestanti”. Violenza e disprezzo, che la Casa Bianca sputa in faccia rabbia e alle disuguaglianze.
No, nessuna pandemia ha reso l’America migliore e il suo Presidente rappresenta quanto di peggio oggi sia possibile per renderla migliore. L’America conosce, oggi, tutta la violenza della sua restaurazione bianca.
È l’America, costruita sulla forza e sulla pelle dei tanti esclusi, marginalizzati. La pelle nera degli afroamericani è un colore che l’America non riesce a sopportare e il sogno americano assomiglia sempre più a un incubo senza senso, ma quell’incubo non toglie il sonno a chi guarda solo il verde del proprio giardino. Ma fuori da quel giardino sempre verde ci sono, e ci saranno sempre, quelle “schegge impazzite” che chiedono e cercano tracce di umanità. Nessun ingranaggio è perfetto, a volte basta un granello di polvere per fermarlo. A volte quel granello di polvere cade dai vestiti di un uomo rimosso dall’asfalto dopo essere stato assassinato da una maschera in divisa, nel compiaciuto silenzio di uno Stato che accoglie chi arriva con lo sguardo rassicurante di una statua chiamata della “Libertà”.
Ma è solo una statua, ed è la prima maschera che si vede quando si arriva in America. Poi, piano piano, la maschera cade e mostra tutte le altre facce nascoste con cura e che si rivelano poi con cinismo e arroganza.
L’America, come il mondo intero, è davanti a un bivio che dimostra di non saper e voler affrontare: la crisi sociale, economica e umana, che la pandemia sta provocando sarà fonte di ulteriore marginalizzazione degli ultimi, dei più umili. Il conflitto sociale che ne seguirà sarà inevitabile, l’America si sta preparando e conosce una strada maestra, la sola che ha sempre seguito. È una strada bianca, gli altri colori non sono ammessi.
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