Di Alfredo Luis Somoza.
Scriveva Antonio Gramsci nei suoi Quaderni dal carcere, a proposito della società dei
suoi tempi: «Le grandi masse si sono staccate dalle ideologie tradizionali, non
credono più a ciò in cui prima credevano, ecc. La crisi consiste appunto nel
fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si
verificano i fenomeni morbosi più svariati». La sua celebre frase si può
applicare perfettamente anche alla situazione odierna della comunità mondiale.
Finita la Guerra Fredda, nell’ambito della quale il mondo ha vissuto per
decenni un equilibrio basato su due superpotenze che contrapponendosi reggevano
l’ordine globale, ne è seguita una transizione che sembra non concludersi più.
Le velleità di chi puntava a un mondo unipolare sotto guida statunitense si
sono infrante, come dimostrano decine di situazioni nelle quali Washington non
solo non è stata in grado di garantire l’ordine ma ha finito con l’accrescere
il caos. Al tempo stesso si è dimostrata non percorribile anche la via
dell’ordine multipolare, altra teorizzazione nata nel post-Guerra Fredda, che
immaginava un equilibrio garantito da più potenze globali e regionali. L’utopia
che le Nazioni Unite, opportunamente riformate, potessero farsi portatrici di
un nuovo ordine multi-bilaterale è stata abbandonata da tempo. Ora si parla di
un nuovo bipolarismo tra Stati Uniti e Cina: ma anche questa evoluzione, che
pure in sé ha aspetti positivi dal punto di vista della regolamentazione del
commercio internazionale, non appare destinata a incidere minimamente
sull’attuale disordine geopolitico.
Il mondo ora sta regredendo velocemente a uno stadio
simile a quello che precedette la Seconda guerra mondiale, quando le potenze
lottavano tra loro per espandersi territorialmente e conquistare aree
d’influenza economica. Quel periodo si caratterizzava, come quello attuale, per
la corsa al riarmo, il montare di ideologie sempre più nazionaliste e xenofobe
e per l’abbandono della politica come strumento per risolvere i conflitti. Gli
appetiti economici si traducevano in conflittualità tra nazioni, le difficoltà
economiche venivano oscurate dalla caccia a minoranze etniche o religiose sulle
quali si faceva ricadere ogni colpa. E la propaganda prendeva il posto
dell’informazione per modellare alla bisogna la coscienza dei cittadini.
Sappiamo tutti come finì quella pagina della storia mondiale, quali furono le
conseguenze, quanto fu spaventoso quel bagno di sangue, eppure comincia a
sfuggirci l’insegnamento fondamentale. Cioè che il mondo è come un condominio,
magari litigioso, ma alla fine costretto a trovare un accordo sulle misure da
prendere.
La dimensione globale dei nostri problemi, dalla pace alla sicurezza alimentare passando ovviamente per il cambiamento climatico, non permette divisioni. Non è possibile pacificare il Medio Oriente, combattere le cause delle moderne migrazioni, salvare gli oceani seguendo politiche nazionali contrapposte. Soprattutto, verificata l’inefficacia di vecchie e nuove potenze, corre l’obbligo di riaprire i canali della mediazione e della definizione di politiche comuni, restituendo ossigeno a quelle istituzioni che rappresentano l’intera umanità. Le uniche carte che oggi si possono giocare sono quelle della legalità: non è permesso violare i confini sovrani di uno Stato, non si possono annientare minoranze etniche o religiose, esiste un dovere di accoglienza dettato dal diritto internazionale nei confronti dei perseguitati. E vanno messe in atto politiche radicali per contenere il cambiamento climatico. Non c’è nemmeno bisogno di capire come fare: su tutti questi temi esistono già convenzioni e capitoli del diritto internazionale discussi e approvati da anni, quando non da decenni. Ma c’è qualcuno in grado di applicarli e di farli rispettare da solo? No. L’unica risorsa rimasta al mondo è proprio la riscoperta delle pagine già scritte e condivise in materia di diritti e di obblighi, finora raramente applicate. Una buona metà del lavoro è fatta, rimane la metà più difficile. La si potrà concretizzare solo se, anche in questo caso, si riuscirà a comporre una comunità di nazioni che mettano al primo punto l’interesse comune. Se ciò non accadrà, la deriva in corso produrrà solo tragedie.
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