“L’uomo
deve camminare col viso rivolto al sole in modo che questo, bruciandolo, lo
segni della sua dignità. Se l’uomo abbassa la testa, perde questa dignità. Ma
soprattutto sappiate sentire sulla vostra guancia lo schiaffo dato a qualsiasi
guancia di un uomo. È la qualità più alta di un essere umano.”. (Ernesto Guevara de la Serna).
Sono alcuni
passi della lettera che Ernesto Che Guevara scrisse ai suoi figli, nel 1965, prima di scegliere
l’ultima strada del suo cammino rivoluzionario: la Bolivia del presidente René
Barrientos. Era l’8 ottobre del 1967
quando un reparto antiguerriglia dell’esercito boliviano, con la complicità
della CIA, lo catturava nella provincia di Vallegrande (dipartimento di Santa
Cruz). Un giorno di prigionia, uno solo… il tempo necessario per ucciderlo, mutilarlo
delle mani ed esporlo al pubblico come un trofeo da esibire. Quell’immagine,
così simile al “Cristo morto” di Andrea Mantegna, faceva il giro del mondo come
a dimostrare che l’uomo che aveva restituito dignità all’America Latina non
c’era più, e non poteva più fare paura ai potenti e agli imperialisti di ogni
latitudine. Calcoli feroci, freddi e
aridi: si può uccidere un uomo, mutilarlo, ma questo non significa ucciderne
l’idea che quell’uomo ha saputo trasmettere a tutti gli oppressi del mondo. La
storia di Ernesto Guevara de la Serna diventa leggenda, perché gli uomini
speciali forse sono pochi, ma esistono. Chi ha ucciso quel corpo l’ha capito
subito dopo averne fatto scempio, così come l’hanno capito tutti coloro che avevano
brindato per quell’esecuzione, ed è la loro sconfitta più grande, perché il
“Che” vive nella mente e nel cuore di ogni uomo che abbia anche solo un’idea del
valore della libertà e della solidarietà. Quanto tempo è passato da quel giorno
d’autunno del 1967, quante cose sono oppure sembrano cambiate da allora. Ma tante
cose sono rimaste uguali, ferme come uno scoglio in mezzo al mare. Spiegare,
provare a raccontare cosa è stato il “Che” e cosa, ancora oggi, rappresenta per
intere generazioni è facile. Certo il rischio di cadere nella retorica
rivoluzionaria esiste, ma è un rischio che è giusto accettare. Io ero un
bambino quel giorno d’autunno, è stato il tempo che mi ha invitato a capire chi
era quell’Uomo che sentiva sulla sua guancia tutti gli schiaffi presi dai
popoli oppressi di ogni angolo del mondo. Il tempo, e un viaggio a Cuba quando
ero ancora un ragazzo o poco più. La storia di Ernesto Guevara de la Serna è
lì, a disposizione di chiunque voglia studiarla e conoscerla. Non è mia
intenzione raccontarla, credo che altri sappiano e possano farlo meglio di
quanto sia in grado di farlo io. Io mi tengo le emozioni che quella storia mi
ha trasmesso, mi prendo gli insegnamenti che ancora oggi hanno un valore immenso.
Quel bisogno di giustizia sociale, vissuto a piene mani e in piena libertà,
rappresenta già di per sé un valore capace di andare oltre qualunque ideologia
e arrivare a qualcosa di ancora più grande e umano. Nel mondo contemporaneo
dove i muri ricrescono a ogni confine, nella società di oggi che guarda con irritazione
etnica e razziale alla marcia dei migranti in fuga da guerre, miseria e
carestie in cerca del diritto alla vita, quell’Uomo che ha sempre lottato
contro ogni discriminazione razziale, convinto che l’ignoranza fosse una catena
da spezzare al pari di ogni dittatura, avrebbe tante cose da insegnare.
Ernesto
Guevara guardava a tutta l’America Latina con amore, un amore figlio della
stessa lingua e della stessa cultura, della stessa Terra. Ma quella Terra ha
avuto un padrone in comune che da sempre ha lavorato per sradicare quel legame.
Straordinario e profondamente vero, in tal senso, il discorso che Ernesto Che
Guevara rivolse all’Assemblea Generale dell’ONU l’11 dicembre 1964: http://fondazionefeltrinelli.it/la-storia-dovra-tener-conto-dei-poveri-d-america-ernesto-che-guevara/.
Eppure, quella
“…famiglia di duecento milioni di
fratelli che soffrono le stesse miserie, sono animati dagli stessi sentimenti, hanno
lo stesso nemico, aspirano tutti a uno stesso destino migliore…” per lui
non si limitava alla sola America Latina, e quella famiglia senza confini lo ha
spinto oltre l’America Latina. Questa è stata la sua grandezza, e questo è oggi
il nostro limite. Non abbiamo capito questa lezione, grande nella sua
semplicità. Quante lezioni non riusciamo a capire nella loro essenza, e quanti
orizzonti ci precludiamo in nome del colore della pelle e di una cultura
diversa. E quella di Ernesto Guevara de la Serna è stata una lezione umana,
prima ancora che storica: quella coerenza estrema con i propri ideali, che
portano a morire per un’idea che diventa il simbolo della ribellione più pura
contro qualunque ingiustizia e qualunque disuguaglianza, è una coerenza capace
di prendere posizione e disposta a pagare anche il prezzo più estremo. Il volto
del “Che”, con la sua storia e i momenti più belli e più intensi come la
Rivoluzione cubana e anche le sue sconfitte, come la Bolivia, resterà un
simbolo e una fonte d’ispirazione di ogni lotta davvero rivoluzionaria. Oggi,
cinquantadue anni dopo la sua morte, vediamo un mondo dove il nemico storico
dell’America Latina sceglie di lasciarsi governare da un miliardario rozzo e
razzista, quella che una volta era l’altra faccia oggi è la Russia
ultranazionalista e autoritaria, mentre la Cina che Guevara aveva conosciuto ha
scelto la strada del capitalismo sfrenato. C’è sempre qull’America Latina che
il “Che” amava e sentiva come la sua terra, e penso allora al Brasile di Jair Bolsonaro
e alla sua politica criminale, fascista e razzista. Il “Che” non avrebbe mai
potuto accettare quest’insulto vomitato in faccia agli Indios e all’Amazzonia. E
poi, infine, resta un’Europa assente e lontana, incapace di recepire anche un
solo paragrafo del libro di storia scritto da Ernesto Guevara de la Serna, un’Europa
incapace, per scelta o per destino, di fare davvero i conti con la propria
storia e i propri errori. Un’Europa che vede il nemico e il pericolo nei
diseredati che sbarcano sulle coste del Mediterraneo perché lì sono spinti da
decenni, secoli, di umiliazioni e soprusi di cui l’Europa ha grandi colpe. E
allora parole come internazionalismo, uguaglianza e solidarietà, non entrano
proprio nel nostro vocabolario monco ed egoista. Il vocabolario del “Che”
parlava un’altra lingua, imparata un giorno alla volta attraversando la sua America
Latina in motocicletta, insieme all’amico Alberto Granados: il Cile e il Perù,
la Colombia e il Venezuela.
Una lingua che
troverà il momento più alto nella Rivoluzione cubana, su quella Sierra Maestra
dove il “Che” insegnava a leggere e scrivere a chi non lo sapeva fare, perché
“…Un popolo che non sa né leggere né scrivere, è un popolo facile da ingannare.
L’ignoranza è una catena da spezzare al pari di ogni dittatura”. Da quella
Sierra Maestra, Ernesto Guevara arrivò dove nessuno era mai arrivato prima,
restituendo dignità e libertà a un popolo di oppressi e a un Paese che era
diventato il bordello e il parco giochi degli Stati Uniti.
Ernesto
Guevara de la Serna non è stato solo un grande rivoluzionario. È stato prima di
tutto un Uomo, e diventare un grande rivoluzionario è stata la logica
conseguenza di un percorso umano grandissimo. Uomo, Rivoluzionario e poeta.
Perché i “grandi Uomini” esistono. Sono rari ma esistono, a volte hanno il viso
di un ragazzo argentino che amava il rugby e osava sfidare i polmoni aggrediti
dall’asma. Il ragazzo argentino ha scritto un libro di storia e di vita, che
nessuno potrà cancellare. E allora sì, i “grandi Uomini” esistono, solo che il
mondo, questo mondo, spesso non sa riconoscerli e forse non sa meritarli.
“Bisogna
essere duri senza perdere la tenerezza.” (Ernesto Guevara de la Serna)
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