Di
Alfredo Luis Somoza.
Era inevitabile che la concorrenza tra i
produttori di gas prima o poi coinvolgesse l’Europa, il primo mercato
acquirente mondiale. Meno scontato che da un lato ci fosse la Russia, storico
fornitore di metano via gasdotto, e dall’altra gli Stati Uniti, che fino a
pochi anni fa erano a malapena autosufficienti. A mescolare le carte è stata la
rivoluzione dello shale gas, e cioè di quel gas che si presenta intrappolato
nelle argille anziché in giacimenti “convenzionali”: grazie alla scoperta di
giganteschi giacimenti di questo genere nelle pianure centrali degli States, e
all’adozione di nuove tecniche di sfruttamento soprassedendo sulle gravi
ricadute negative per l’ambiente, Washington è diventata una potenza
esportatrice di energia fossile.
Oggi negli Stati Uniti si estrae più
petrolio che in Arabia Saudita e più gas che in Russia. Questo boom ha portato,
tre anni fa, alla cancellazione del divieto di esportare petrolio e gas: una
limitazione che risaliva ai tempi in cui il Paese era fortemente dipendente
dall’importazione di fonti energetiche estere. Per gli esportatori
statunitensi, tutte imprese private, si è così posto il problema del trasporto
del gas via mare, e dunque della sua liquefazione. Gli impianti per
liquefazione si sono già moltiplicati in Louisiana, Texas e Maryland, mentre
diversi altri sono in cantiere.
Nell’Unione Europea invece la produzione
è in declino e il continente è sempre più dipendente dalle importazioni. Gli
acquisti sul mercato statunitense finora sono rimasti minimi: solo
l’equivalente di 3 miliardi di metri cubi nel 2017, a fronte di un consumo di
circa 500 miliardi. La Russia, attraverso il gigante Gazprom, da sola fornisce
200 miliardi di metri cubi, oltre il 40% del consumo europeo. La dipendenza
dalla Russia è figlia delle leggi del mercato e non è certo dovuta alla
mancanza di impianti di rigassificazione, anzi: i quasi 30 impianti europei
vengono usati in media solo al 25% della loro capacità. Il gas statunitense sta
infatti dirigendosi prevalentemente in Messico e in Asia, dove spunta prezzi
migliori rispetto a quelli che potrebbe ottenere nel Vecchio Continente, che ha
molte alternative a disposizione. Perciò le pressioni di Donald Trump affinché
i Paesi europei aumentino le importazioni di shale gas made in USA cadono nel
vuoto. Quello delle fonti energetiche è un mercato di operatori privati, che
non hanno convenienza a fare sconti: gli europei non sono disposti a comprare a
un prezzo più alto rispetto a quello offerto dai concorrenti. L’offensiva del
gas, con la quale Washington vorrebbe controbilanciare la presenza russa,
crolla proprio davanti alla politica dei prezzi, sulla quale non ci sono
strumenti di intervento.
Gli unici Paesi che hanno dato segnali
positivi agli Stati Uniti lo hanno fatto per motivi geopolitici e non
economici. La Germania sta costruendo un terminal di rigassificazione che non è
giustificato dall’andamento del mercato, ma è una risposta a Trump che ha
accusato Berlino di essere sotto il controllo di Mosca dal punto di vista
energetico. Poi ci sono Lituania e Polonia, che storicamente dipendevano al
100% dal metano russo e puntano a crearsi un’alternativa.
Più interessante è l’impatto che lo sbarco statunitense sul mercato europeo del gas ha avuto sulla politica dei prezzi dei fornitori storici. Russia, Algeria e Norvegia hanno rivisto le loro politiche, finora quasi da monopoliste, per venire incontro ad alcune richieste dei clienti, per esempio la fine dell’indicizzazione dei prezzi del gas al costo del petrolio. Dunque per l’Europa la concorrenza energetica rappresenta sicuramente un vantaggio, mentre per gli Stati Uniti è un buco nell’acqua: anziché penetrare nel mercato più ricco del mondo, hanno stimolato i Paesi concorrenti a migliorare la loro offerta. L’idea di Donald Trump, e cioè che le questioni geopolitiche potessero pesare più di quelle economiche, si è dimostrata solo un’illusione: è l’ennesima constatazione dell’allontanamento progressivo degli USA dall’Europa, al quale fa da contraltare un avvicinamento tra gli Stati Uniti e l’Oriente. Dopo 500 anni di protagonismo, l’Atlantico sta progressivamente perdendo la sua centralità a vantaggio del Pacifico.
https://alfredosomoza.com/