“Lei è un artista e non ha bisogno di capire. Forse è
meglio che non capisca troppo. Alcuni espressionisti tedeschi hanno lavorato nella
stessa direzione, ma erano degli intellettuali, sapevano dove stavano andando e
si sforzavano di esprimere una certa idea. Mentre lei dipingeva i soldati,
sapeva già che si sarebbero diretti in fila verso un sesso monumentale?”
Per questo romanzo del 1964, Simenon inventa un protagonista
leggero, si direbbe veramente “sereno”, e ne riassume in poche pagine
una vita vissuta, parola dell’autore: “a diretto contatto con la natura e
con ciò che lo circonda”.
Da bambino povero a un’esistenza di adulto cui basta davvero
poco per vivere. Come la pittura, ma: “Non cercava di copiare la realtà, una
sedia, una strada, una donna, un tram. Gli capitava di farla, come esercizio, e
ci riusciva anche piuttosto bene. Ma erano immagini.”
Invece: colori puri, tenere insieme le cose che non hanno in
apparenza alcun rapporto tra loro, rappresentare il mondo come lo si vede con
gli occhi della mente, senza pensarci, come gocce di memoria, un
ricordo, la nostalgia o il rimpianto, amaro struggimento, amore per ciò che non
c’è più. L’infanzia o quel che ne resta, ciò che siamo in nuce senza fronzoli
od orpelli che ne limitano la visione, che occultano e nascondono fino a far
dimenticare CHI SIAMO.
La Rue Mouffetard delle origini è un velo sul viso, un
cerchio magico nel quale non si può più rientrare una volta usciti: “Non
aveva forse tratto qualcosa da tutto, da tutti? Non si era forse servito della
loro sostanza?”
A saperlo, non sarebbe riuscito ad “arrivare sino in fondo”.
All’inizio o alla fine, chi lo sa?
La natura di cui parla anche Simenon è quella più
concretamente umana. E lui, lui è un ragazzino, un angioletto, Le
Petit Saint per l’appunto.
Dai PUNTI DI RIFERIMENTO ben più saldi di quanto si possa
pensare. Come ombre, seguono e precedono… [FINE]
“Ho conosciuto Francis Jansen quando avevo diciannove
anni, nella primavera del 1964, e oggi voglio raccontare le poche cose che so
di lui.”
Inizia così Chien de printemps di Patrick Modiano dove
il solito protagonista-voce narrante-alter ego o piuttosto Modiano stesso
incontra un fotografo di nome Francis Jansen e finisce a svolgere per un
lui un lavoro di catalogazione della sua opera: “Avevo comprato due quaderni
rossi marca Clairefontaine, uno per me, l’altro per Jansen, in modo che
l’indice delle foto fosse registrato in doppia copia. (…) «È un lavoro
da benedettino, ragazzo mio… Non si affaticherà troppo?» Sentivo nella sua
voce una punta di ironia.”
Il tutto si svolge come sempre nei romanzi di Modiano un po’
per caso un po’ come fosse destino che. E saranno proprio questi due quaderni
rossi l’unica cosa a salvarsi alla fine. Parole dunque e non immagini, come
d’altronde lo stesso Jansen diceva: “Mi aveva chiesto cosa contassi
di fare in futuro e io gli avevo risposto: «Scrivere». Questa attività gli
sembrava essere «la quadratura del cerchio» – il termine esatto che aveva
usato. In realtà, si scrive con le parole, e lui cercava il silenzio. Una
fotografia può esprimere il silenzio. Ma le parole? Ecco cosa secondo lui
sarebbe stato interessante: riuscire a creare il silenzio con le parole. Era
scoppiato a ridere: «Allora, cercherà di farlo? Conto su di lei. Ma mi
raccomando, che questo non le impedisca di dormire…».”
Il personaggio di Jansen che ricorda per certi aspetti
il fotografo francese Robert Doisneau (1912-1994), come lui: “Una rivista
americana l’aveva incaricato di illustrare un reportage sulla gioventù parigina”
ed “Era alla ricerca di una innocenza perduta e di scenari fatti per la
felicità e la spensieratezza ma in cui, ormai, non si poteva essere più felici.”
Alla fine: “gli restavano solo vaghi punti di
riferimento”.
E uno spunto, più che un appiglio cui aggrapparsi, che
rischia di essere piuttosto scivoloso: “Mi disse che dopo un certo numero di
anni finiamo per accettare una verità che presentivamo ma che nascondevamo a
noi stessi per incuranza o vigliaccheria: un fratello, un doppio è morto al
nostro posto a una data e in un luogo sconosciuti e la sua ombra finisce per
confondersi con noi.”
Lo sa bene Modiano, che non a caso in calce ad un altro suo
romanzo, Purché tu non ti perda nel quartiere, ha posto Stendhal: Je
ne puis pas donner la rèalitè des faits, je n’en puis prèsenter que l’ombre.
OMBRE dunque, non parole, ma sguardi obliqui al nostro
fianco.
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