Ci sono libri che non sono classici, ma che si
potrebbero definire TOTALI: imperfetti, parziali, meno noti e a volte anche
poco scorrevoli. A partire da uno specifico tema o singolo punto di vista,
riescono però a TENERE INSIEME tante cose apparentemente diverse o lontane tra
loro.
È la cifra di quest’epoca? Tenere insieme CIÒ CHE RIMANE per
avere UNA BASE DA CUI RIPARTIRE.
Tutt’altro movimento di una guerra o di una scoperta, un
viaggio, una rivoluzione, una passione.
Comunque SPOSTANO LE COORDINATE, quelle: “stesse, certe,
sempre più solide coordinate entro cui ci muoviamo.” (S. Roić, Achille
nella terra di nessuno, Zandonai)
E che sembra siano destinate a cambiare. [FINE]
“– E se la morte non fosse altro che suono? – Rumore
elettrico. – Lo si sente sempre. Suono ovunque. Che cosa tremenda! – Uniforme,
bianco.”
Rumore bianco di Don DeLillo è un romanzo di
trentacinque anni fa, ma come i grandi classici sembra scritto ieri e non si
sente il tempo passato, o meglio il tempo che è passato lo ha reso quello che
è.
Jack Gladney, professore in un campus universitario di
una qualunque città americana dove vive con la sua famiglia allargata, lui e la
moglie Babette hanno entrambi figli da precedenti matrimoni, si occupa
di studi hitleriani ma non è ancora riuscito ad imparare il tedesco: “Ciò
che riluttiamo a toccare, sembra spesso essere l’essenza stessa di cui è
intessuta la nostra salvezza.”
Un giorno, una nube tossica originata da una fuori uscita di
sostanza chimiche da un carro cisterna si abbatte sulla città, è: L’evento
tossico aereo.
Da questo momento in poi ciò che poteva sembrare normale
quotidianità inizia a scricchiolare e dalle crepe di quella facciata sembra
emergere la VERITÀ che come una luce abbagliante e accecante inonda e costringe
a socchiudere gli occhi, a ritrarsi dove è possibile.
É la nostra paura di esseri umani: la PAURA DELLA MORTE. E
ognuno vi fa fronte come può: “Possano i giorni essere senza meta. Le
stagioni scorrano. Non si prosegua l’azione secondo un piano.”
Questo romanzo è proprio così: potentemente critico, ironico
e satirico, estremo, assurdo, ma anche molto banale e UMANO. Come la vita, come
la spesa al supermercato: “Ed è lì che aspettiamo, tutti insieme, a dispetto
delle differenze di età, i carrelli stracarichi di merci colorate. Una fila in
movimento lento, gratificante, che ci dà il tempo di dare un’occhiata ai
tabloid nelle rastrelliere.”
E lo sguardo continua ad essere rivolto ad ovest, a
quell’occidente dove tramonta il sole. [FINE]
“Che cosa significa per gli altri organismi «attenzione»?
È una facoltà pragmatica, che ignora tutto il rumore bianco sensoriale?”
Scritto vent’anni dopo Rumore bianco di Don DeLillo, Nature
Cure del botanico Richard Mabey funge da perfetto contraltare.
In linea con quello che sembra essere sempre più un tratto
caratteristico di oggi, Mabey parla di sé stesso e di un momento molto
particolare della sua vita. Ma nel farlo, dice soprattutto, e per fortuna,
della natura che, beato lui, lo circonda e del rapporto che può crearsi quando
si sa guardare al di là della punta del proprio naso, proprio con quel OLTRE DA
SÈ di cui inevitabilmente, ma troppo spesso inconsciamente, facciamo parte.
D’altronde: “un tempo ragione e natura non erano viste
come opposti.”
E con tutta la cultura di cui dispone l’autore ce lo
dimostra, in una lettura che sa essere molto piacevole trattando di ambiente e
sfida ecologica, linguaggio, letteratura e arte, piante, animali e territorio,
rondini, malattia e sentimenti, psicologia e filosofia, sociologia e politica,
rapporti umani e FUTURO.
Per concludere: “La sfida principale che il genere umano
deve affrontare è trovare un punto di incontro con la natura, un quartiere dove
ognuno accetta la presenza dell’altro. Il rapporto corretto deve essere,
metaforicamente, a metà strada tra dieci giorni di campeggio nel folto del
bosco e la passeggiata lungo un sentiero attrezzato.”
Da dove si parte? Semplice, da un ORTO: “un modo per
costruire ponti oltre i confini.”
Nel caso di Mabey, su di un terreno leggermente pendente
proprio verso ovest, infatti: “Nei suoi diari Thoreau scrive che durante i
periodi di torpore, in cui sentiva il bisogno di rigenerarsi, finiva
inevitabilmente per incamminarsi verso sudovest.”
Un modo forse diverso per guardare ad occidente.
A cura di G
Utilizziamo i cookie per essere sicuri che tu possa avere la migliore esperienza sul nostro sito. Se continui ad utilizzare questo sito noi assumiamo che tu ne sia felice.Ok