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La Voce Del Cantiere E La Censura Di Facebook
Di Maurizio Anelli.
C’era una volta, a Milano, il Centro Sociale Leoncavallo. C’è ancora, certo diverso ma solo in parte da quello che era negli anni ’70 ed è giusto che così sia, altri tempi e altre stagioni, altre generazioni. Ogni generazione ha dentro di sé qualcosa che la rende diversa da quelle che l’hanno preceduta e da quelle che verranno dopo. Ognuna di loro vive il suo tempo, crede nei suoi ideali e si nutre di quei valori. Poi ci sono le vittorie, alcune così belle da essere indimenticabili, le contraddizioni e le sconfitte. In quella stagione non esistevano i social network, niente internet… niente di niente, nemmeno un telefonino scalcinato. Però c’era qualcosa che respiravi nell’aria, come un tam tam che comunicava con tutta la città. Segnali di fumo forse. Hanno provato in tutti i modi a mettere i bastoni fra le ruote di quel Centro Sociale, e in tanti hanno provato a ridurlo al silenzio: la Milano bene di allora e i fascisti.
Ho un ricordo chiaro della Milano di allora, dei suoi colori e delle tante voci che attraversavano le sue strade. Qualcuno ricorda quegli anni solo come “gli anni di piombo”… che stupido errore. Stupido, miope e soprattutto ipocrita. C’era molto di più dentro quegli anni e dentro quella città. C’era un mondo d’idee che correvano, di passione e d’impegno politico e sociale. E c’era quella voglia, anzi la certezza, di riuscire a cambiare il mondo. C’erano il colore e il profumo della ribellione e della solidarietà. E poi c’era quell’età, che non conosce la paura di perdere. Poi, in un giorno di marzo del 1978, al Centro Sociale Leoncavallo arriva la morte e si prende Fausto Tinelli e Lorenzo Jannucci, Fausto e Jaio. Anzi, li lascia lì sul marciapiede accanto ai loro diciotto anni. Oggi c’è ancora il “Leoncavallo”, forse diverso ma c’è ancora a dispetto della Milano bene di ieri e di oggi. Vive, nel ricordo di Fausto e Jaio e delle madri del Leoncavallo che hanno continuato a scrivere quella pagina incominciata dai figli, una fra le più belle di Milano. Qualche tempo fa Moni Ovadia disse una cosa bellissima: “… Il Leoncavallo è una delle realtà più vive e fa parte della storia della città. Ha svolto un ruolo fondamentale in campo culturale, sociale e politico offrendo spazi di aggregazione a cittadini come i giovani delle periferie degradate o gli extracomunitari”.
Sono passati tanti anni, il tempo corre sempre più veloce di tutto. Oggi a Milano i centri sociali che disturbano il sonno della Milano bene, ma non solo, sono più di uno. Ognuno di loro ha la propria storia e i propri colori, radicata nei quartieri in cui vivono ma sempre in movimento nella città che li circonda. Spesso occupano e restituiscono un senso e una dignità a spazi dismessi tolti alla speculazione, all’abbandono e al degrado, il più delle volte nei quartieri più popolari dove i punti di aggregazione sociale sono un’utopia. Quell’utopia i ragazzi dei centri sociali riescono a crearla, qualche volta entrando a piedi uniti nel “ben pensare” della città e delle Istituzioni. Piano piano, un giorno alla volta, quell’utopia cresce e all’interno di una fabbrica dismessa o di una palazzina abbandonata cresce un mondo che merita di essere conosciuto. Bisogna entrarci in un centro sociale per conoscerlo veramente, bisogna avere voglia di mischiarsi con quella parte di umanità che il mondo fuori dalla porta chiama “antagonista”, quasi con disprezzo e fastidio. Quel mondo “antagonista” tesse solidarietà, cuce e ricuce vite e solitudini, cerca quel contatto umano che è alla base dell’esistenza. Fa politica e lotta contro un sistema che emargina sempre l’anello più debole della catena. Ecco, la politica, appunto. Nell’Inverno del 2019 il Ministero degli Interni, guidato da Matteo Salvini, prometteva il pugno di ferro e la tolleranza zero nei confronti dei Centri Sociali e stilava il loro censimento: “Monitoriamo con attenzione tutte le situazioni. Nessuna tolleranza per i violenti”. http://www.ilgiornale.it/news/cronache/mappa-dei-centri-sociali-met-sono-abusivi-e-illegali-1649562.html
In quel censimento la città di Milano era in testa alla classifica. Oggi Matteo Salvini non è più il Ministro degli interni, ma la sua battaglia contro i centri sociali trova tanti adepti. I centri sociali fanno politica e questo non piace a tanti. Fra i tanti cui non piacciono le persone che camminano in direzione ostinata e contraria c’è anche Mark Elliot Zuckerberg: imprenditore, fra i fondatori e oggi presidente e amministratore delegato del social network Facebook.
Non esistevano i social network nella stagione del Leoncavallo di Fausto e Jaio. Chissà come avrebbe reagito Mark Elliot Zuckerberg negli anni settanta. Erano gli anni del Cile di Pinochet, dell’Argentina di Videla, dell’America Latina violentata dagli Stati Uniti, erano i giorni del Condor. E in Italia erano gli anni delle stragi fasciste. Si faceva politica anche allora, ed era davvero arrabbiata. Oggi come allora chi si schiera, chi esprime con forza e convinzione lo sdegno contro il massacro militare e il silenzio complice e vigliacco dei padroni della terra finisce nel mirino. Censura, una parola che nel 2019 esiste ancora senza vergogna. Oggi la guerra al Popolo curdo, così come quella al Popolo palestinese, non ammette repliche.

Il centro sociale ”Cantiere” fa politica dal suo primo giorno di vita, nel maggio 2001. Una palazzina dismessa della città veniva occupata da studenti e precari che, un giorno alla volta, hanno saputo restituire dignità a muri abbandonati: serate di musica, cene etniche, una libreria e organizzazioni di assemblee fra le reti della città e, cosa gravissima, la gestione di uno sportello per i migranti. Il Cantiere non ha mai nascosto le proprie idee e il suo modo di vivere e di fare progetti, ma commette qualcosa che Facebook non tollera e non può accettare: prende una posizione chiara e forte a favore del popolo curdo, si schiera. Altre pagine social, oltre a quella del Cantiere, sono state oscurate per lo stesso motivo. La libertà delle idee e la loro libera circolazione sono sempre un pericolo, fanno paura e vanno fermate.
Fanno paura a chi dirige l’orchestra, e il direttore ha deciso che non si deve disturbare la Turchia di Erdogan che da anni è fra i paesi che in tutti i modi impediscono e rendono quasi impossibile l’accesso ai social. È in buona compagnia: Iran, Cina, Vietnam, Pakistan e Corea del Nord. Il dramma dei curdi non deve entrare più del consentito nella casa di Facebook. D’altronde l’America di Zuckerberg ha inserito da molto tempo il PKK nell’elenco delle liste del terrorismo internazionale e la tragedia del popolo curdo, così come per i palestinesi, deve essere coperta dal silenzio e dall’Indifferenza. E allora si stringe il cerchio non solo sulla libertà di stampa, ma anche attorno ai social network. Ma se i grandi organi d’informazione sono controllabili dai Consigli di Amministrazione e dal cappio del potere politico, i social hanno possibilità diverse. Una pagina viene chiusa perché disturba il quieto vivere ? si riapre, con un altro nome ma con la stessa voce. Ma il problema resta. I social sono uno strumento, e come per tutti gli strumenti c’è un rovescio della medaglia: sono controllabili, sono manipolabili. Ma restano anche una possibilità concreta di dare voce e visibilità a chi non ha altri mezzi.
C’era una volta, a Milano, il Centro Sociale Leoncavallo. Insieme con altri laboratori di umanità di una generazione che non ha mai chinato la testa, il “Leonka” ha segnato una strada. Su quella strada in tanti hanno continuato a camminare, lavorare e sognare. Su quella strada si è sempre provato a costruire un progetto solidale e meticcio, su quella strada molti hanno trovato e perso qualcosa. Anche per questo quella strada merita rispetto e considerazione. Ai ragazzi del “Cantiere” e di tutti quei laboratori di umanità sociale che restituiscono vita agli angoli morti di una città e hanno ancora voglia di cercare e costruire auguro di andare avanti, di continuare a camminare su quella strada. Troveranno sempre qualcuno che proverà a mettere un bavaglio alle voci e alle idee: la gente “perbene e ben pensante”, qualche moralista di strada e di scrivania, oppure un imprenditore statunitense di appena trentacinque anni diventato miliardario dopo aver fondato Facebook. Ora ne è non solo il padre, ma anche il padrone. Però, come tutti i padroni, non ha ancora capito che una voce libera trova sempre altre voci e quando le voci diventano più di due, allora diventano un coro capace di gridare sempre più forte e di raccontare quello che succede nel giardino di casa e nelle strade del mondo, passando anche da Gaza e dal Kurdistan, ogni volta che sarà necessario.
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