Di Alina Nastasa.
Di
Alessandro Mahmoud si potrebbe parlare in molti termini. Cantante? Autore?
Giovane artista emergente? Ma certo che no. Quello che conta, quando si parla
del vincitore di Sanremo, è il cognome, il colore della pelle, l’orientamento
sessuale. È questo ciò che pesa maggiormente nell’Italia di oggi, quell’Italia
che, da un po’ di tempo ormai, sta costruendo – invece che ponti e nodi
ferroviari, tanto per fare degli esempi a caso – quella che in apparenza è una
corsia preferenziale per una maggioranza meritevole di giustizia e riscatto
sociale. Ma che in realtà serve solo per contrapporsi a un corridoio di seconda
classe in cui, per un motivo o per un altro, rientrano tutti gli altri, quelli
considerati inferiori ai primi.
E su
quale criterio si baserebbe questa crescente dicotomia tra un eterno “noi”
avente diritto al meglio e un imprescindibile “loro”, gruppo abusivo che si
distingue per una forte diversità rispetto al primo? Mistero della fede, un
fantomatico generatore automatico salviniano che decide in base al (mah)mood
del giorno quali categorie contrapporre e come accentuarne maggiormente i
contrasti.
Mai
esempio più eclatante di quanto possa essere efficace il sempre valido “divide
et impera”, specie nei tempi di una noiosissima comunicazione politica online
fatta di banalità e semplificazioni ripetute pletoricamente in loop. Sanremo,
si sa, pur essendo il festival della musica per antonomasia, non rappresenta tanto
quello che si sente sul palcoscenico quanto quello che si vede nella penombra
dei riflettori. E nella penombra dei riflettori si distinguono chiaramente i
profili di chi non sa più cosa inventarsi per costruire un nemico.
Il
vincitore di Sanremo è stato bersaglio di numerosi commenti razzisti ed
omofobi, ma quella è solo la punta visibile di un iceberg. Forti sentimenti di
odio, disprezzo e intolleranza verso le comunità LGBTQ attraversano la Penisola
da nord a sud e la politica ne è il principale fomentatore. Se un ripugnante
Feltri unisce dei puntini (che vede solo lui) tra il calo del Pil e “l’aumento
dai gay” e si prende tutta la libertà di sbattere una tale schifezza in prima
pagina a grandi caratteri, la politica, del resto, non ha molte idee su come
contrastare tali comportamenti (oltre alle ridicole minacce relative alla messa
in discussione del finanziamento pubblico ai giornali). In Italia, una legge
che punisca le discriminazioni e le violenze basate sull’identità di genere e
sull’orientamento sessuale non è solo necessaria, ma urgente.
I
nostri vicini svizzeri l’hanno approvata lo scorso ottobre, introducendo il
reato di omofobia e transfobia punibile con la galera fino a tre anni – un
grande passo in avanti nella lotta contro le discriminazioni, tutto merito del
socialista Mathias Reynard, 31 anni.
Secondo gli ultimi dati, l’Italia è uno dei Paesi più
discriminatori d’Europa da questo punto di vista. Il comune di Treviso
(amministrazione leghista), civilissima città settentrionale, ha appena deciso
di uscire dalla rete RE.A.DY (“Rete Nazionale delle Pubbliche Amministrazioni
Anti Discriminazioni per orientamento sessuale e identità di genere”). Grande
soddisfazione manifestata da Fratelli d’Italia (quelli delle frittelle gratis solo ai
bambini italiani, per intenderci) che, oltre a sottolineare come
l’educazione nelle scuole non debba essere a senso unico, ribadisce anche il
ruolo centrale della famiglia “tradizionale” – quella etero-patriarcale – e dei
suoi diritti. Gli stessi che ha in mente il senatore Pillon nel suo disegno di
legge.
Ma
mentre da noi ci si fa la gara a chi la spara più grossa, rischiando
concretamente di farci tornare indietro di decenni, o anche di più, dal
profondo Est uno scorcio di luce inizia a intravedersi nell’ascesa di Robert
Biedron, sindaco progressista – dichiaratamente omosessuale e ateo – della
città di Slupsk, nella cattolicissima Polonia, nonché fondatore di Wiosna
(“Primavera”), formazione politica che nasce proprio pochi mesi prima delle
elezioni europee.
Un
programma che mette al centro la separazione tra Stato e Chiesa, il
riconoscimento delle unioni civili, misure per contrastare l’omofobia, parità
salariale tra uomini e donne: una proposta politica che ha delle buone
possibilità di riuscita per il prossimo appuntamento elettorale e che si
propone come terzo competitor tra il partito conservatore Diritti e Giustizia
(PIS) e Piattaforma Civica (PO), attualmente all’opposizione. Una realtà
progressista che nasce inaspettatamente in contesti più lontani e ostili. E
anche se gli ultimi sondaggi danno la “Primavera” polacca all’8%, come terza e
ultima forza politica, staremo a vedere se col tempo qualche lezione la
possiamo prendere proprio da lì.
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