Di
Alfredo Luis Somoza.
Al
momento, in termini di vite umane, l’America Latina non sta pagando un prezzo
particolarmente elevato alla pandemia di Covid-19, se si fa eccezione per
alcune città come Manaus, Rio de Janeiro e São Paulo in Brasile o Guayaquil in
Ecuador. Ci sono problemi sanitari più gravi, come la febbre dengue stagionale
nel Cono Sud, con un numero di malati 10 volte superiore a quello dei positivi
al coronavirus. Per l’America Latina i danni maggiori causati dalla pandemia
riguardano l’economia. In particolare il settore del cosiddetto “lavoro
informale”, che occupa dal 30 al 50% della popolazione attiva: venditori
ambulanti, colf, giardinieri, muratori, badanti che lavorano in nero e vivono
alla giornata. In Perù, ad esempio, il 43% dei lavoratori è fermo e non
percepisce nessun reddito, e per l’80% si tratta di lavoratori informali.
La
Cepal (Commissione Economica per l’America Latina e i Caraibi, organismo
economico delle Nazioni Unite) prevede che l’America Latina perderà 5 punti di
PIL regionale, con un aumento di 12 milioni del numero di disoccupati; in
tutto, 40 milioni di persone piomberanno nella povertà entro la fine dell’anno.
A questo buio panorama si aggiunge il calo di entrate fiscali, per via della
scomparsa del turismo e del calo dell’export: e di conseguenza ci saranno
minori risorse per garantire sanità e sussidi, in aggiunta all’aumento
esponenziale del debito pubblico, una delle piaghe più antiche dell’America
Latina. Secondo gli esperti, si tratterà della peggiore crisi della storia per
la regione.
La
situazione in Africa non è molto diversa. Anche lì altre malattie mietono più
vittime del coronavirus, con l’eccezione di alcuni focolai. Lo stesso vale per
il Medio Oriente e il Sudest asiatico. Insomma, anche se i dati sono da
prendere con le pinze, pare che il cosiddetto Sud del mondo, quello che una
volta chiamavamo “terzo mondo”, stia reagendo bene alla pandemia. È possibile
che questioni climatiche e la composizione anagrafica delle popolazioni abbiano
limitato la diffusione del virus e la gravità dei contagi. La pandemia, invece,
sta colpendo in profondità i Paesi con le più alte percentuali al mondo di
persone anziane sulla popolazione totale: quelli, cioè, dotati di sanità
moderna e spesso anche di welfare.
Per
quanto riguarda l’impatto economico, le previsioni del Fondo Monetario
Internazionale non fanno sconti a nessuno, quando prevedono un calo globale di
3 punti di PIL con punte di 10 punti in Europa. Ma le società più colpite sono
anche le più ricche, quelle che hanno risorse da investire sia per fronteggiare
l’emergenza sia per la “ricostruzione”. Stanziamenti di miliardi e miliardi
sono stati annunciati dagli Stati Uniti e dall’Europa, che già cominciano a
spendere.
Saranno
i Paesi del Sud del mondo, che pure dal punto di vista sanitario avrebbero
altre priorità, a pagare doppiamente la crisi. Avendo adottato anch’essi misure
di lockdown, e vivendo soprattutto di export di materie prime, subiranno un
tracollo economico senza avere risorse da destinare alla ripresa: quindi
ricorreranno massicciamente al debito, emettendo moneta e generando inflazione,
con tutte le conseguenze sociali e l’instabilità politica che ne deriveranno.
È vero
che una pandemia è un problema globale, ed è auspicabile che tutti seguano le
indicazione dell’OMS; ma non è vero che tutti ne pagheranno le conseguenze allo
stesso modo: una volta superato il problema sanitario ciascuno farà per sé, la
solidarietà si sarà esaurita. Perciò lo slogan “andrà tutto bene”, e gli inviti
alla solidarietà e alla collaborazione internazionale per fronteggiare il
dramma sanitario, andrebbero riformulati: dovrebbero essere estesi allo sforzo
per uscire, tutti insieme, anche dalle tragiche ricadute economiche del
fenomeno coronavirus. Capirlo e agire di conseguenza sarebbe la più grande
rivoluzione degli ultimi decenni, la migliore eredità lasciata da questa pandemia.
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