Di Alina Nastasa.
Negli
Emirati Arabi un noto sceicco (evidentemente disorientato) assegna premi per
l’uguaglianza di genere a soli uomini. La foto dell’evento, diffusa con molto
orgoglio dall’ufficio stampa del governo di Dubai, fa il giro del mondo e sui
social la derisione si propaga alla velocità della luce. Ciò che più suscita
l’ilarità generale è proprio l’immagine di un uomo che spartisce certificati e
medaglie ad altri uomini per il loro impegno nel raggiungimento del nobile
obiettivo riguardante la parità di genere.
Ancor
più contrastante però è il fatto che la maggior parte dei premiati non viene da
organismi indipendenti bensì da quasi tutte agenzie governative. La storia
sfiora poi il macabro se si pensa che, neanche un anno fa, una delle figlie
dello sceicco in questione, la principessa Sheikha Latifa bint Mohammed
al-Maktoum, venne catturata al largo delle coste indiane, incarcerata (e molto
probabilmente anche torturata) dopo il secondo tentativo di fuga – pianificata
da 7 anni – da un paese e soprattutto da un padre evidentemente troppo
oppressivo. Di Latifa non si hanno notizie dal marzo scorso, ma a dicembre la
BBC ha realizzato un documentario che racconta la sua drammatica e misteriosa
vicenda.
Il Gender Index Award di Dubai? Molto probabilmente
una mera operazione cosmetica, tanto simbolismo e poco woman empowerment concreto.
Poco prima della premiazione di Dubai – a circa una
settimana di distanza – dal grembo della civilissima cultura pop occidentale
prende vita un vero scandalo che precede la tanto attesa reunion delle
emancipate Spice Girls. Una lodevole campagna per la parità di genere sostenuta
da Comic Relief, storica associazione benefica inglese, alla quale la girl band aderisce senza esitazioni: la vendita di
una t-shirt esclusiva (a sole 19 sterline) in occasione del mega evento, i cui
introiti andrebbero a finanziare la campagna Gender Justice destinata alla
lotta per la parità di genere nel Regno Unito. Tutto questo a un prezzo molto
basso, quello delle lavoratrici bengalesi che producono le magliette nella
fabbrica che era stata appaltata per questo progetto e che pagherebbe le sue
dipendenti (perché la maggioranza sono donne) circa 40 centesimi di euro l’ora,
in un clima di totale sfruttamento e abuso.
Anche se negli ultimi decenni sono stati fatti grossi
passi in avanti, la disuguaglianza di genere è onnipresente nelle società di
oggi. Il messaggio che passa dalla storia di uno sceicco milionario che cerca
di adeguarsi a tutti i costi al politically correctness,
quanto meno nella forma – perché nella sostanza le politiche sulla parità di
genere (oltre a quelle sui diritti in generale) rimangono sempre sotto un
grosso punto interrogativo – non è molto lontano dal messaggio che viene fuori
dalle, purtroppo, tante storie di sfruttamento del lavoro femminile nei Paesi
poveri da parte di realtà capitalistiche/occidentali, tutto nel nome di cause
assai ammirevoli come quella dell’uguaglianza di genere.
Secondo l’ultima classifica stilata dal World Economic
Forum (Global Gender Gap Index Report 2018) che monitora il divario
di genere dal 2006, il percorso per colmare la disparità ha raggiunto, in
media, il 68%, registrando un aumento quasi impalpabile rispetto ai dati
rilevati lo scorso anno. La buona notizia è che il trend è positivo, ma questo
vuol dire anche che c’è ancora un lungo 32% di strada da fare e parrebbe che i
ritmi di percorrenza siano molto lenti. L’Italia si colloca alla 70° posizione
su 149 Paesi, ma rimane ultima tra i maggiori Paesi avanzati e quart’ultima in
Europa Occidentale, prima di Grecia, Malta e Cipro.
A
livello globale, per colmare il gap tra uomini e donne sul posto di lavoro e
mantenendo lo stesso trend di crescita, occorreranno altri due secoli per
raggiungere la parità. Ma perché è ancora necessario combattere l’asimmetria di
genere e soprattutto perché è una questione che riguarda tutti noi?
Il
modello economico dei nostri giorni è fortemente improntato su uno schema
patriarcale e ha un costo molto alto. Storicamente, il valore economico del
contributo apportato dalle donne non è mai stato riconosciuto, specie quando,
ad esempio, la sussistenza viene considerata una mancanza di produttività e di
conseguenza molte donne risultano economicamente inattive.
E poi,
a volte, si sviluppano contesti in cui allargare lo spazio alle donne è
necessario. Anzi, indispensabile. Basta pensare, ad esempio, alla velocità con
la quale negli Stati Uniti, durante il secondo conflitto mondiale, per poter
supportare l’impegno bellico a fronte del massiccio esodo dei soldati americani
– un insostenibile calo di forza lavoro – vennero inserite nella produzione
industriale fasce sociali che da sempre erano emarginate: le donne (e gli
afroamericani). Alla fine della guerra, con il ritorno degli uomini in patria,
la stessa velocità si ripropone nello smaltimento del surplus di forza lavoro e
a pagarne il prezzo saranno le stesse fasce cosiddette deboli.
Ma tornando nel presente, in Italia si intravedono
delle nuvole molto scure all’orizzonte perché il disegno di legge Pillon,
attualmente in commissione Giustizia al Senato, non promette nulla di buono.
Contrastare la cosiddetta sindrome di alienazione
parentale, la mediazione familiare obbligatoria in caso di
separazione (a pagamento), una nuova idea di parità attraverso un
discutibilissimo diritto alla bigenitorialità sono tutti elementi che fanno
molta paura perché le prime vittime di queste scriteriate misure saranno
proprio i minori. E poi anche le loro madri, che si ritroveranno con delle
ulteriori limitazioni della loro libertà.
E
infatti c’è chi parla di un ritorno al medioevo. E in un sistema economico
patriarcale in cui il valore delle cose è stato sostituito dal prezzo, è molto
facile che il caro prezzo di queste politiche che spingono verso un
allargamento della forbice delle diseguaglianze lo paghino ancora una volto
loro, le donne.
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