La luna di miele tra il premier ungherese Viktor Orbán e i suoi
concittadini pare stia finendo. Il campione europeo dei sovranisti, il politico
che è riuscito nell’impresa di blindare totalmente il suo Paese per impedire
l’arrivo di migranti ora viene contestato in piazza. E ciò accade proprio per
le conseguenze della sua politica di chiusura, che ha portato l’Ungheria ad
avere un disperato bisogno di manodopera. Ma siccome Orbán non è disposto a
cedere sui migranti, ecco che per accontentare le grandi aziende tedesche che
hanno investito in Ungheria si inventa un provvedimento subito battezzato “legge
schiavitù”. In pratica si obbligano i lavoratori a garantire 400 ore di
straordinari all’anno – praticamente due mesi e mezzo di lavoro aggiuntivo –
ritardando, però, il pagamento di questa prestazione fino a tre anni.
L’Ungheria non è la sola ad avere problemi di questo tipo, secondo l’indice
europeo Manpower delle imprese che fanno fatica a coprire posizioni lavorative.
In testa a questa classifica figurano la Romania con l’81% di imprese in
difficoltà e la Bulgaria con il 68%. L’Ungheria è al 51%, alla pari con la
Germania, e infine si trovano Svezia e Finlandia con il 42%. Sono numeri che
smentiscono chiaramente gli allarmi di invasione in corso, svelando la realtà
oltre la propaganda. La verità è che da un lato i Paesi europei stanno
scontando il calo demografico generalizzato, che anno dopo anno assottiglia la
popolazione giovanile e attiva, e dall’altro le aspettative lavorative dei
giovani europei non coincidono con l’offerta di una parte del mercato del
lavoro, quella che necessita di manodopera poco o per nulla qualificata. Anche
negli Stati dove questi lavori vengono ben retribuiti, per esempio in Germania.
Poi c’è il caso dei Paesi dell’Est, che scontano anche l’emigrazione avvenuta
dopo la caduta del Muro di Berlino.
Questa situazione sta mettendo a repentaglio la sostenuta crescita
economica registrata in questi anni. Le imprese tedesche, francesi, italiane
che hanno investito in Bulgaria, Romania o Ungheria, attirate dal basso costo
del lavoro locale, non avevano previsto che, con la libera circolazione dei
cittadini europei, ci sarebbe stata una consistente emorragia di manodopera
dall’Est verso i mercati più ricchi. E oggi fanno fatica a trovare lavoratori.
Fuori dall’Europa la situazione non è molto diversa: dall’Australia al
Giappone, e ovviamente anche negli Stati Uniti, l’economia richiede manodopera
che localmente non è reperibile. Il muro di Trump da questo punto di vista
assomiglia molto al filo spinato di Orbán: pura propaganda che, a medio
termine, mette in difficoltà le imprese e anche le famiglie, perché una quota
consistente dei flussi migratori trova occupazione proprio nei servizi alle
persone.
Le migrazioni non sono mai entrate seriamente in un ragionamento di
governance globale. Solo il timido Global Compact appena approvato dalle
Nazioni Unite comincia a riflettere su una situazione che è variegata e
complessa, anche se spesso viene descritta come univoca e pericolosa. Dal punto
di vista del diritto non si possono confondere, e questo è certo, i rifugiati
con i migranti economici. Ma non è possibile nemmeno considerare i primi come
pesi morti da mantenere solo perché obbligati dalla legge, e guardare i secondi
come potenziali delinquenti. I rifugiati, oltre che lavoratori, possono essere
strumento di politica internazionale, testimoniando con la loro stessa presenza
le angherie inflitte dai tanti regimi che opprimono interi popoli. I migranti
economici sono invece un bisogno vitale del sistema produttivo europeo e
occidentale, così come lo sono stati in passato, al tempo in cui nacquero e si
svilupparono gli Stati americani.
Nel mondo globalizzato non solo le multinazionali viaggiano e si insediano
altrove: si muovono anche le persone, seguendo le offerte del mercato del
lavoro. È una realtà così semplice da essere disarmante, eppure viene negata.
Finché il popolo che doveva essere tutelato dall’invasione straniera scende in
piazza per protestare contro il suo stesso leader sovranista, che ne ha reso le
condizioni di lavoro simili a una moderna schiavitù.
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