Di Maurizio Anelli.
C’è
una parola che ne custodisce mille, le racconta e regala un volto a tutto
quello che è difficile spiegare. Pensieri e sentimenti che volano alti mentre altri
volano via, come a proteggere sé stessi e gli altri da una tristezza che
ferisce nel profondo, dove le cose più presenti sono quelle che mancano. In
Portogallo e in Brasile questa parola ha un nome preciso, la chiamano
Saudade.
Nostalgia,
certo, ma non solo. Nella saudade c’è qualcosa che va oltre la nostalgia, e
forse mai come in questo momento riusciamo a coglierne fino in fondo tutte le
sfumature. Qualche volta assomigliano al vuoto che si porta via tutto quello
che riesce a prendere: volti, persone, sentimenti, posti. Si prova a capire, si
prova a lottare per riprendere per mano quello che manca e quello che si è
perso. È una battaglia difficile, perché riguarda quello che eravamo e quello
che saremo, ma soprattutto quello che siamo. C’è un passato, ci sarà comunque
un futuro ma, adesso, c’è un presente che detta le regole. Non esistono battaglie
facili e questa è difficile più di qualunque altra, difficile da spiegare,
bisogna solo viverla. Siamo dentro quella linea di confine che, una volta
superata, permette di scavare fino in fondo alla nostra anima e ai nostri
pensieri.
Nessuna
storia collettiva è separata dalle storie individuali che costruiscono
l’insieme, le ferite individuali sono parte di quell’insieme e ognuno prova a
curare le proprie ferite come riesce e come può, e a volte l’insieme non è
capace di percepire quanto può essere profonda la ferita individuale.
L’isolamento che stiamo vivendo in questa notte che sembra non finire è quella
linea di confine che scava dentro di noi. Possiamo superarla, ma dobbiamo
crederlo fino in fondo consapevoli che pagheremo un prezzo e che quel prezzo
sarà alto. Qualcosa che non pensavamo di affrontare ha minato dall’interno le
nostre certezze, le nostre forze, e ci costringe a fare i conti con le
fragilità e le paure che avevamo tenuto a bada per tanto tempo. Ma paure e
fragilità sono una componente umana che non possiamo fingere di ignorare,
convivono con noi. Dobbiamo superare quella linea di confine, lo dobbiamo a noi
stessi e a tutto quello che ci ha permesso di vivere fino a prima, a tutto
quello che ci ha accompagnato sulla nostra strada: le idee e le passioni, le
amicizie, gli affetti, la dignità che ci ha sempre permesso di camminare a
testa alta.
Poco o
niente potrà essere uguale a prima, ma nella
vita c’è sempre un dopo. È a quel dopo che dobbiamo guardare, anche con rabbia
se necessario perché la rabbia è una vitamina essenziale della vita, non
dovremo vergognarcene e nasconderla ma amarla, desiderarla come si desidera un
amore.
MalcolmX sosteneva che “… gli uomini quando sono tristi non fanno niente, si
limitano a piangere sulla propria situazione. Ma quando si arrabbiano allora si
danno da fare per cambiare le cose…”.
Condivido e
faccio mio questo pensiero, lo considero un insegnamento. Le persone migliori
che ho incontrato sulla mia strada, quelle che mi hanno insegnato a non chinare
mai la testa, quelle che mi hanno regalato le emozioni più belle e il sorriso
più pulito, quelle che non hanno mai avuto bisogno di una maschera di ipocrisia
per affrontare la vita a viso aperto, non hanno mai nascosto la loro rabbia.
Credo che quelle persone amassero e amano la vita più di chiunque altro. La
prima persona ad insegnarmi questo valore è stato mio padre, poi ne sono venute
altre. A queste persone devo molto.
Poco o
niente potrà essere uguale a prima, ma quel
dopo e quel domani che dovrà pur arrivare lo sapremo ri-costruire. Questa notte
non dovrà e non potrà essere dimenticata, perché le ferite non vanno
dimenticate. Le ferite si curano e si disinfettano, ma restano dentro di noi.
Non è vero che il tempo guarisce tutto, è un’altra bugia che spesso gli Uomini
si raccontano per dimenticare. Io non voglio dimenticare nulla, voglio ricordare
tutto. Voglio, ma sarebbe meglio dire vorrei, che quello che stiamo vivendo sia
l’ennesimo insegnamento per capire che un mondo diverso è possibile e,
soprattutto, è necessario. Non voglio dimenticare chi ha avvelenato il pozzo in
questi anni costruendo e inventando nemici e invasioni, seminando odio e
razzismo a mani aperte, non voglio dimenticare chi ha distrutto il valore
sociale e la sanità pubblica e oggi ha bisogno degli “eroi” per salvare vite
umane, non voglio dimenticare che ha costruito le proprie carriere politiche e
il proprio potere seppellendo ogni goccia di umanità. Non voglio dimenticare
chi ha chiuso i porti e scritto decreti fascisti. Non voglio dimenticare chi ha
sulla coscienza gli accordi con la Libia e il cimitero del Mediterraneo. Non
voglio dimenticare chi non ha mai mosso un dito contro le mafie ma ha mosso
entrambe le mani contro le ONG, chi ha amministrato regioni e città come fosse
“cosa” loro.
E, uscendo
dal giardino di casa nostra, non voglio dimenticare la faccia e il nome di chi
mostra tutto il suo disprezzo verso quel mondo di invisibili condannati a
morire dai vigliacchi che si credono immortali: dagli indios delle foreste
brasiliane alle favelas di Rio che Bolsonaro lascerà morire, dalla striscia di
Gaza a chi muore nei campi profughi, a chi scappa dalle guerre ma non potrà
scappare da un virus. No, non voglio dimenticare nemmeno una virgola di tutto
questo. Voglio ricordare nomi e cognomi, carriere e poteri, per combatterli
sempre finché ne avrò la forza, fino all’ultima goccia.
Guardo fuori
dalla finestra e, per la prima volta, osservo la primavera attraverso un vetro.
Lei non si è accorta di niente e fiorisce come sempre. La primavera non si
accorge delle città deserte e dei giardini senza il vociare dei bambini che
giocano. Anzi, nei giardini di Milano sono tornate le lepri, come non si vedeva
da anni. Guardo la primavera e ascolto il suo silenzio. È un silenzio amaro e
che resterà per sempre nella memoria e nel cuore, ma quel silenzio chiama tutti
noi a ritornare nelle strade e nelle piazze, nei parchi. Potremo farlo un
giorno, sapremo aspettare quel tempo, e se sapremo superare quella linea di
confine forse potremo anche essere migliori… forse. Molto dipende da noi, noi
che siamo quell’insieme che deve ancora imparare a capire e ad ascoltare il
silenzio di chi si prende cura delle proprie ferite in un silenzio ancora più
grande, con dignità. Quando avremo imparato anche questo allora saremo davvero pronti
a guardare avanti una volta ancora, saremo pronti per tornare a ridere e a
cantare ancora in una piazza. Adesso so cos’è la saudade, e capisco che per
capirla veramente bisogna viverla. Provo a conviverci, provo ad andare oltre
quella linea di confine, voglio andare avanti e provo a farlo insieme a quel
mondo che sento mio.
Ma teniamoci
cara la nostra rabbia, senza nasconderla nell’ipocrisia di una maschera, perché
questo fottuto mondo non si cambia chiedendo il permesso.